Extravergine d’autore recensisce io sono Nina
Perché l’abbiamo scelto
Gabriella Mazzon Venturati ha uno stile asciutto, semplice e rapido, molto forte e crudo nella scelta delle parole, che colpisce l’attenzione e il cuore del lettore, e scuote la sua sensibilità, non sempre in modo piacevole, ma sicuramente con incisività.
Il percorso che la protagonista fa insieme alla sua famiglia durante il periodo della malattia della madre è seguito passo passo: i personaggi sono narrati con uno scavo psicologico molto approfondito, le situazioni vissute con empatia e emotività.
Un libro di grande profondità psicologica: una riflessione sulla vita e sulla morte, sulla vecchiaia e sulla malattia. Forte e sconvolgente come tutto ciò che ci mette di fronte alle nostre paure, alle proiezioni, alle rimozioni, a tutti quei meccanismi di difesa che mettiamo in atto per salvarci da realtà che non vogliamo ammettere.
“Mi porterebbe a casa, adesso?” chiede mia madre.
Mi dà del lei, non ha idea di chi io sia.
Le prime due righe del romanzo ci portano immediatamente al centro della questione della demenza: la perdita di ciò che ci è più caro la nostra identità, la nostra storia.
Nina è un’anziana madre che si trova nella fase conclusiva della sua demenza senile quando, per l’improvvisa assenza della badante, la figlia si trasferisce nella sua casa d’infanzia per starle accanto.
È lì, nel luogo in cui è cresciuta e che la madre non riconosce più, che inizia a confrontarsi con il suo stesso ruolo di ‘figlia’ ormai privo di significato, con la disattenzione del passato, con il senso da dare alla vita se questa è così incline a farsi spazzare via e con la chiara percezione dell’emarginazione in cui la madre vive, isolata com’è in un mondo che non riconosce, circondata da luoghi e persone a lei ora totalmente estranei.
Un’esperienza raccontata a cuore aperto dove la figlia costruisce un viaggio in cui si trova a riflettere su come intendiamo la disabilità e la non autosufficienza, sull’indifferenza e la superficialità, se non, peggio ancora, la violenza con cui trattiamo i nostri anziani. E poi la relazione, non sempre facile, con operatori sanitari e medici.
Ma anche in una storia come questa, dove tutto sembra già scritto, c’è qualcosa da imparare: un altro rapporto con il tempo, la calma, la lentezza. La lezione di vita che ci impartisce è la capacità di vivere il presente e di apprezzare le piccole cose. Ed è questo nuovo sguardo l’eredità più grande che una persona affetta da demenza può lasciare dietro di sé.
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