Manituana
Wu Ming
Einaudi, Torino, 2007
pag. 613 – 17,50 €
Come sarebbe stata l’America di oggi se i coloni non avessero vinto la guerra di indipendenza? Se la civiltà indiana non fosse stata sconfitta e cancellata o almeno rinchiusa in recinti, che il nome era troppo brutto ed allora chiamiamole “riserve”.
Siamo nel 1775 agli inizi di quella rivoluzione che fece nascere gli Stati Uniti d’America. Ci hanno abituati a vederla dalla parte dei vincitori, dalla parte di Washington che sconfisse i lealisti americani, fedeli a re Giorgio d’Inghilterra, ma come in ogni guerra c’è un altro lato,quello dei perdenti. In questo caso la confederazione indiana delle Sei nazioni irochesi. Si può dire che sia la storia di coloro che hanno scelto di stare dalla parte sbagliata, quella dei lealisti, solo perché consapevoli che i ribelli avrebbero distrutto le loro terre. Terre nelle quali da decenni irochesi e coloni convivevano pacificamente.
Ma che indiani, questi indiani che ci presenta Manituana! Indiani che leggono Voltaire, che suonano il violino, che hanno nomi come Joseph Brant,che hanno capacità oratorie e diplomatiche. Nel leggere Manituana mi appariva ogni tanto nella mente le immagini dell’infanzia, quelle dei film degli “indiani e cow-boys”. Quelle dove gli i primi sono sempre rozzi, incolti, ubriaconi, violenti e sanguinari guerrieri. Certo, questi sono presenti anche in Manituana e non hanno nulla da invidiare alla banda di delinquenti dei sobborghi di Londra, dove la delegazione irochese si reca inutilmente per chiedere appoggio al re e assicuragli la loro fedeltà.
Cosa sarebbero oggi gli Stati Uniti se le cose fossero andate diversamente? Un luogo non per forza migliore, un luogo, forse, dove non sia così necessario sentirsi sempre cow-boys e pistoleri e giustizieri dei peccatori mondiali.
Forse. Non possiamo saperlo. Non ci resta che leggere Manituana ed aprire uno squarcio nell’immagine distorta che tanti film americani ci hanno sulla civiltà indiana.
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