Io sono Nina nella recensione di “Pagine a merenda”

Pagine a merenda, blog letterario curato dall’appassionata Linda per la quale “sedersi sul divano a leggere un libro per me è come gustarsi una buona e meritata merenda” ha dedicato una lunga recensione a Io sono Nina – Storia di una demenza senile.

Recensione di Io sono Nina – Storia di una demenza senile

Oggi ti propongo uno di quegli argomenti per i quali non bastano 1000 parole per essere esauriti, e non basta il campo dei commenti per essere discussi. In ogni caso, ho deciso di affrontarlo, in quanto molto attuale, seppur denso di tristi sfumature.

Gabriella Mazzon Venturati ha scritto “Io sono Nina – Storia di una demenza senile”, una storia breve, una storia vera, trattando il tema della demenza senile in modo diretto e disilluso, senza però lasciare da parte la speranza, che con la sua volontà di parlarne, mantiene viva. Una storia dal carattere forte e affettuoso, con pochi dialoghi e molte riflessioni, ti permette di “entrare” e di capire cosa comporta trovarsi, di punto in bianco, ad affrontare un esperienza dura come questa. Ne parla senza timore, ne parla con un sapore amaro in bocca. Ne parla e ti fa pensare a quanto la vita, davanti ad una mente che di ricordi non ne ha più, sembri perdere di significato. Te ne parla facendoti provare anche paura, in certi momenti, e smarrimento in altri, perché non puoi evitare di traslare l’esperienza su di te.

COSA NE PENSO

È così facile ignorare ciò che accade a chi ti sta accanto.

Spesso non ti accorgi dei cambiamenti nelle persone che ti sono vicine, (e non parlo solo della demenza senile, non credi?). Comincia così: ci si dimentica qualche cosa all’inizio, e sembrano banalità. Non ci pensi neanche che sia un lento andare incontro alla demenza senile e non “semplice vecchiaia”.

Non sono mai entrata a diretto contatto con la demenza senile, ma lo sono stata, in parte, con un suo fratello: l’Alzheimer. E mi sono scontrata con il fatto di non essere riconosciuta da mio nonno, rimanendone ferita. Posso solo lontanamente immaginare cosa significherebbe non essere riconosciuta da mio padre, o da mia madre. E mi si congela lo stomaco se rifletto la malattia su me stessa, e a quanto mi fa soffrire il pensare di potermi dimenticare di mio figlio. È una catena che sarebbe bello spezzare.

Vivi una vita, condividi le esperienze più importanti con le persone che ami di più, poi.. come se niente di tutto questo avesse una valenza, te ne dimentichi. E la tua vita viene cancellata come il gesso dalla lavagna.

È una  tranquillità inquieta la sua, colma di un disorientamento che non trova sfogo, una perdizione senza appello, un vagare nelle ore che si accumulano, nei giorni che passano, con quella labile percezione del tempo che le è rimasta.

Mi chiedo: si prova qualcosa? Cosa sente un anziano quando affronta tutto questo? Non è più in grado di esprimersi, ma davvero non è neanche più in grado di “sentirsi” e di capire quello che prova?

All’apparenza sembrerebbe di sì, e questo mi fa provare in qualche modo un po’ di sollievo, il fatto di pensare che la persona colpita dalla demenza non sia in grado di soffrire. Ma c’è anche un altro lato della medaglia: vuol dire anche non essere più in grado di provare felicità.

Le persone che le stanno intorno però sì: soffrono. Forse all’inizio di più, forse ci si abitua. E forse, la persona che hai davanti, neanche tu la riconosci più. Forse dentro ti si apre un vuoto incolmabile, che si nasconde dietro a tutte le cose che devi fare per aiutarla, dietro allo scontro con la realtà, lo scontro con gli ospedali, lo scontro con i medici, lo scontro con una mentalità che non capisco.

[…]

La demenza, più ancora dell’idea che fra un istante potremmo morire, è la vera ragione per la quale l’unico modo sensato di vivere è giorno per giorno.

Lo si dice spesso, CARPE DIEM, cogli l’attimo perché non sai se un domani ci sarà, vivi giorno per giorno e non sprecare il tuo tempo a piangerti addosso, vivilo con felicità, perché spesso sei proprio tu a scegliere come affrontare la tua giornata, se con positività o con disgusto. Si tratta di fare un piccolo sforzo in più. Perché a volte, lo so, è davvero uno sforzo. Ma quanto spesso lo si dice, altrettanto spesso lo si dimentica: e diamo peso alle futilità, perdiamo tempo ad accanirci contro qualcosa che non esiste, non dedichiamo tempo alle persone che amiamo, non godiamo dei piccoli gesti, diciamo “lo faccio dopo.. lo chiamo dopo”, ma “dopo” potrebbe essere troppo tardi. Potresti arrivare tardi a dire: “ti voglio bene, mamma” o “ti voglio bene, papà”, perché potresti sentirti dire: “IO SONO NINA”, come la donna affetta da demenza senile del romanzo risponde a sua figlia, nel momento in cui dimentica di essere mai stata “mamma”.

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